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“Lu rusciu de lu mare”: un antico canto narrativo del Salento tra storia e cultura popolare

di Alessio Stefàno

Un patrimonio musicale dimenticato

La terra del Salento conserva da sempre un legame privilegiato con la musica, in tutte le sue variegate espressioni. Questo si è manifestato in ogni aspetto della vita delle sue popolazioni: alla nascita, come alla morte dell’individuo; nel gioco dei fanciulli e nel corteggiamento amoroso; nel domestico, nel quotidiano, e persino durante le lunghe ore di duro lavoro nei campi. Non possiamo, poi, non ricordare le numerose ricorrenze sacrali, che da tempo immemore scandiscono l’ordo temporis nella nostra terra: dal Natale, alla Quaresima, ai riti della Settimana Santa, sino ad arrivare alle numerose feste patronali che caratterizzano ogni singolo borgo del Salento.

Come molti altri aspetti della “cultura popolare”, in questa terra, così come in tutto il Meridione d’Italia, anche il “canto popolare” è entrato nel sistema della proposta turistica e delle politiche di sviluppo locale. Così, il folklore – divulgato attraverso i libri, i documentari televisivi, attraverso la musealizzazione e l’istituzionalizzazione dei “beni demo-etno-antropologici” – ha suscitato un nuovo interesse per le comunità di riferimento (Giancristofaro 2020: 12). Negli ultimi due decenni, in effetti, si è assistito in maniera crescente a pratiche di riappropriazione e patrimonializzazione della “cultura popolare” da parte delle stesse comunità. Considerate testimonianze di un “lontano passato”, le varie tradizioni hanno spesso subito le manipolazioni delle nuove politiche culturali; queste, se da un lato si sono preposte l’obiettivo di salvaguardare le peculiarità delle consuetudini locali, dall’altro hanno portato alla loro riproposizione sul «mercato delle identità» (Imbriani 2013: 193). È accaduto così che, allo spontaneo processo di riaffermazione e riscoperta degli usi e costumi scomparsi o che rischiavano di scomparire si sono presto affiancati, «finendo spesso con il prevalere, vari interessi economici, istituzionali e politici diretti a manipolare a proprio vantaggio le manifestazioni tradizionali» (Buttitta 2013). In quegli stessi luoghi dove le forme “tradizionali” del canto e della musica popolare continuavano – spesso in sordina e in ambito familiare – a vantare una certa diffusione, si è assistito, nel corso degli ultimi decenni, alla nascita di numerosi gruppi di folk revival, i quali si proponevano di eseguire nelle pubbliche piazze i canti e le musiche dei “tempi che furono”.

Il processo di riscoperta, riappropriazione e riproposizione della “musica popolare” ha, tuttavia, anche portato ad una più o meno consapevole “selezione” del patrimonio musicale tradizionale, finendo spesso col far prevalere un singolo genere: quello della cosiddetta “pizzica-pizzica”. Molti canti popolari – i quali non ben si adattavano ai gusti e alle mutate esigenze del pubblico – sono finiti, così, per essere dimenticati; altri, invece, hanno subito processi più o meno importanti di trasformazione e riplasmazione, soprattutto, nella loro originaria musicalità. Un caso emblematico, in tal senso, è rappresentato da uno dei canti più famosi del repertorio tradizionale salentino: “Lu rusciu de lu mare” (Il rumore del mare).

Un canto popolare e le sue trasformazioni: Lu rusciu de lu mare

Il testo del canto è piuttosto noto:

Na sira ieu passai de le patule

E ntisi le ranocchiule cantare.

 

A una una ieu le sintia cantare,

Ca me pariane lu rusciu de lu mare.

 

Lu rusciu de lu mare è mutu forte,

La fija de lu re se dae alla morte.

 

Iddha se dai alla morte e ieu alla vita,

La fija de lu re sta se marita.

 

Iddha sta se marita e ieu me ‘nzuru;

La fija de lurre me dae nu fiuru.

 

Iddha me dae nu fiuru e ieuna parma,

La fija de lu re sta va alla Spagna.

 

Iddha sta va alla Spagna e ieu in Turchia,

La fija de lurre, la zita mia.

 

Una sera io passai dalle paludi/e sentii le ranocchie cantare.

A una una io le sentivo cantare/che mi sembravano il rumore del mare.

Il rumore del mare è molto forte/la figlia del re si dà alla morte.

Lei si dà alla morte ed io alla vita/la figlia del re sta per sposarsi.

Lei sta per sposarsi, io prendo moglie/La figlia del re mi dona un fiore.

Lei mi dona un fiore, io una palma/la figlia del re se ne va in Spagna.

Lei se ne va in Spagna ed io in Turchia/la figlia del re la fidanzata mia.

 

In alcune versioni è presente la strofa aggiuntiva:

E vola volavola palomba mia!

Ca ieulu core meu ne l’aggiu dare.

 

E vola volavola colomba mia/che io il mio cuore le devo donare.

 

Il testo è costruito attraverso distici dalla struttura rimica irregolare (AB CB DD EE FF GH II), con la presenza di rime baciate nei tre distici centrali ed in quello finale. Come osservato da Alessandro Bitonti, a livello lessicale il testo è denso di arcaismi come rusciu (rumore, forse dal greco ρόθιον), ranòcchiule (rane), fiuru (fiore), zzita (fidanzata); i verbi mmarita (‘maritarsi’, da maritāre, derivato da marītus) e ‘nzuru (ossia ‘prendere in moglie’, dalla voce latina inuxorāre) che sono usati secondo il loro valore semantico originario (Bitonti 2015: 307-308).

Possiamo inquadrare questo brano nel genere dei “canti narrativi”, notevolmente diffuso nel Salento e in altre aree della Penisola; anche la sua tematica è nota: l’amore impossibile tra la figlia di un re ed un uomo comune.

Fig. 1 – Mare in tempesta a Marina Serra (Foto dell’autore)

La musica che accompagna il testo, nella gran parte delle versioni oggi eseguite, è caratterizzata da un’introduzione strumentale, cui segue un incipit a ritmo più lento (I strofa) e, per trasformarsi, a partire dalla seconda strofa in una tradizionale “pizzica”, sebbene in tonalità minore.

In realtà, analizzando la documentazione etnografica, ci si accorge facilmente che la versione che si esegue oggi è molto diversa rispetto a quella che possiamo definire come “tradizionale”.

La documentazione etnografica ed etnomusicale

Il canto che oggi conosciamo come “Lu rusciu de lu mare” risulta già documentato nella remota rilevazione effettuata da Vittorio Imbriani e Antonio Casetti nella seconda metà dell’Ottocento (Casetti Imbriani 1871: 396). Ecco il testo riportato dagli studiosi:

De sira nde passai de la padula,

Nci ‘ntisi ‘nu ranecchiulu cantare.

Lu rusciu de lu mare è troppu forte,

E nu ‘lu sentu,

Ca le parole soi copre lu ‘ientu.

Lu rusciu de lu mare è troppu forte,

Iddhu – sse dae la morte, iddha la vita,

La figghia de lu Rre sse sta ‘mmarita.

‘Ogghiu mme ’nzuru.

La figghia de lu Rre porta lu fiuru.

‘Ene ‘ientu de mare, ‘e ne de terra,

A figghiu de lu Rre fazzu la guerra.

Li dau ‘na parma,

La figghia de lu Rre ‘sse nd ‘ae alla Spagna.

Iddha alla Spagna, iu vadu alla Turchia,

La figghia de lu Rre la sposa mmia.

 

La prima registrazione sonora del canto si ha, invece, ad opera di Alan Lomax il 16 agosto 1954 a Gallipoli[1] (Agamennone 2017: 289-290).Il canto venne documentato nel corso del breve soggiorno salentino dello stesso Lomax e di Diego Carpitella, rientrante nel programma della estesa ricognizione etnografica condotta dai due studiosi nel Meridione d’Italia, tra il luglio del 1954 e il gennaio del 1955. La rilevazione salentina si svolse a cavallo tra giovedì 12 agosto e martedì 17 agosto 1954, e produsse l’acquisizione di 79 documenti sonori, raccolti prevalentemente in quattro località: Calimera, Galatone, Gallipoli e Martano (Cfr. Agamennone 2017).

Riportiamo il testo documentato da Lomax:

Lu rusciu de lu mare è tantu forte

La fija de lu re se dae alla morte

 

Iddha se dai la morte e ieu la vita

La fija de lu re sta se marita

 

Iddha sta se marita e ieu me nsuru

La fija de lu re portau lu fiuru

 

Iddha portau lu fiuru e ieu la palma

La fija de lu re è sciuta a Spagna

 

Iddha è sciuta a Spagna e jeu in Turchia

La fija de lu re la sposa mia

 

E vola vola palomba mia

Lu sergente lu sergente m’aggiù pijà

E vola vola palomba mia

Lu sergente m’aggiù pijà.

 

Pur ruotando intorno ad un costante nucleo semantico, il testo presenta diverse redazioni, tra le quali si notano alcune differenze. Tali differenze, tuttavia, sono da considerarsi essenzialmente insite al processo stesso di trasmissione del canto, per lungo tempo affidato all’oralità. Lo stesso non si può affermare, tuttavia, per ciò che riguarda il tema e la struttura musicale, oggetto di modifiche sostanziali e, più o meno deliberate. Nella versione raccolta da Lomax, infatti, il ritmo del canto appare più lento, quasi rassomigliante ad una sorta di “ninna-nanna”, così da simulare l’andamento, lento e cadenzato, delle onde del mare.

Tale fatto appare sostanzialmente confermato anche nella versione raccolta a Gallipoli da Ettore Vernole negli anni ‘30 del Novecento (Vernole 1934: 270), com’è possibile verificare dallo spartito musicale da egli stesso riportato:

Tra Spagna e Turchia: il contesto storico

Tornando al testo – il cui orizzonte tematico appare, come s’è detto, senz’altro evidente – in questa sede è interessante soffermarsi sul contesto storico che ne ha visto la genesi, deducibile grazie all’analisi di due elementi peculiari che lo caratterizzano.

Il primo è la menzione della Spagna. È a partire dal Cinquecento, infatti, che il Salento entrò a far parte del dominio Spagnolo. Nel 1504 il Trattato di Lione attribuì il possesso del Regno di Napoli alla Spagna. Tuttavia, il dominio spagnolo in Puglia fu messo in discussione venticinque anni dopo, ai tempi della guerra fra Carlo V re di Spagna e Francesco I re di Francia. Ma nel 1529, con la pace di Cambrai, i due sovrani si divisero le rispettive sfere di influenza stabilendo che la Puglia rimanesse territorio spagnolo (cfr. Loiotine Lombardo 2003).

Stessa importanza riveste nel testo anche la menzione della Turchia. La presenza dei Turchi nel Salento è indissolubilmente legata ad un fatto storico molto importante e noto: la conquista di Otranto nell’estate del 1480, l’eccidio degli “Ottocento Martiri” e la successiva liberazione da parte dell’esercito aragonese nel settembre del 1481 [2]. Anche dopo questi importanti eventi, tuttavia, la Terra d’Otranto si troverà spesso ad essere flagellata dalla minaccia “turca”, rappresentata soprattutto dalla pirateria. Specialmente dopo la caduta di Otranto, infatti, «la pirateria assume per la nostra provincia un andamento periodico […]. È un incubo che tormenta le popolazioni, le quali hanno la disgrazia di vivere sul mare. Anche quando il pericolo non c’è, si teme: lo ha creato la fantasia, e i Turchi, perché per i Salentini barbareschi e pirati levantini in genere erano Turchi, sono stati visti anche quando non c’erano» (Panareo 1933: 5).

Alla prima metà del Cinquecento sono ascrivibili le maggiori e più frequenti incursioni della pirateria Turca nel Salento. Questa tragica parentesi, apertasi dopo la presa di Otranto, si accentua notevolmente a seguito della battaglia della Prèvesa, il 27 settembre 1538, per poi attenuarsi e avviarsi al tramonto dopo la battaglia di Lepanto, il 7 ottobre 1571, quando le forze combinate della Lega Santa, sotto il comando di Don Giovanni d’Austria, ottennero la prima grande vittoria contro l’Impero ottomano. È proprio nella prima metà del Cinquecento, infatti, che sono documentabili le maggiori molestie inflitte dai “Turchi” alla Terra d’Otranto; tra queste possiamo senza dubbio ricordare la presa di Castro del 1537 (una seconda conquista della città, sebbene di minore entità, si avrà anche nel 1573/75) (ivi: 5-7). Dopo la battaglia di Lepanto, le scorrerie della pirateria “turca” continueranno nel Salento per oltre un secolo, ma si tratterà di gruppi sempre meno organizzati: «la pirateria, come istituzione al servizio della politica, può dirsi tramontata nel cinquecento. Quell’altra, autonoma, volgare, rivolta a solo scopo di rapina e di furto, si sostituì nei secoli successivi» (ivi: 13).

Appare a questo punto chiaro come la nascita del canto debba scriversi proprio in quel lungo e tormentato periodo che vede il Salento uscire da un lungo medioevo ed affacciarsi, a fatica, sulle soglie della modernità.

Considerazioni conclusive

Alla luce della breve analisi qui condotta, possiamo senza dubbio affermare che “Lu rusciu de lu mare”, oltre a rappresentare uno dei canti più belli ed evocativi del patrimonio musicale tradizionale salentino, è uno dei più antichi e rappresenta la testimonianza concreta di un preciso orizzonte storico culturale.

Alla sostanziale invariabilità del testo, ruotante intorno ad un preciso nucleo tematico, non è tuttavia corrisposta la conservazione della originaria melodia, sin dalle origini legata allo stesso significato del testo.

Dopo una lunga stagione di revival folkloristico, nella quale nel panorama della musica popolare salentina si imponeva sostanzialmente – con poche eccezioni – una versione “moderna” del canto, nell’edizione del 2020 del noto festival della “Notte della Taranta”, il maestro concertatore Paolo Buonvino decide di riproporne una versione polifonica, strumentata secondo la linea melodica “antica”. Che sia il segnale di una nuova consapevolezza nei confronti del patrimonio etnomusicale del Salento? Sarà il tempo a dircelo.

https://www.youtube.com/watch?v=yBoA6LwwKns

Bibliografia

M. Agamennone, Musica e tradizione orale nel Salento. Le registrazioni di Alan Lomax e Diego Carpitella (Agosto 1954), Roma 2017.

V. Bianchi, Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista, Bari 2016.

A. Bitonti, Musica e testi in Salento fra tradizione e modernità, «L’Idomeneo», 19, 2015, pp. 303-312.

I. E. Buttitta, Continuità delle forme e mutamento dei sensi. Ricerche e analisi sul simbolismo festivo, Acireale-Roma 2013.

A. Casetti, V. Imbriani, Canti popolari delle Provincie meridionali, Torino 1871, v. I.

L. Giancristofaro, Osservazioni sul folklore per una teoria della cultura e delle istituzioni politiche, «Palaver», 9, n. 2, 2020, pp. 319-362.

E. Imbriani, Religione popolare e identità culturali, in Romano A., Spedicato M. (a c. di), Sub voce sallentinas: studi in onore di p. Giovan Battista Mancarella, Lecce 2013, pp. 189-195.

G. Loiotine Lombardo, La dominazione spagnola in Puglia, Bari 2003.

S. Panareo, Turchi e barbareschi ai danni di Terra d’Otranto, «Rinascenza salentina», 1, 1933, pp. 2-13.

E. Vernole, Il dopolavoro e i cori tradizionali del Salento, «Rinascenza salentina», 4, 1934, pp. 264-275.

Note

[1]L’esecuzione è a cura di alcune voci maschili, accompagnate da un mandolino e due chitarre.

[2] Per un’analisi storica dei fatti relativi alla conquista ottomana di Otranto si può far riferimento, in generale, a Bianchi 2016.